LA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
L’introduzione del termine psicoterapia nel linguaggio medico-psicologico, che si fa risalire al libro di Bernheim del 1891 dal titolo “Ipnotismo, suggestione, psicoterapia”, ne rivela l’ambiguità originaria: l’effetto terapeutico era affidato alla suggestione, favorita dalla condizione di passività e dipendenza del paziente dal medico. Freud, che si era mosso inizialmente in questo solco, utilizzando l’ipnosi per accedere ai ricordi rimossi nell’inconscio, si rese ben presto conto della transitorietà dell’effetto terapeutico così conseguito; gli sviluppi teorici e tecnici successivi lo portarono a favorire la partecipazione autonoma del paziente attraverso le libere associazioni e a sviluppare una tecnica rigorosa che cercava di escludere qualunque effetto suggestivo, ancorandola a concetti quali: astinenza, insight, neutralità, ecc.
Questa ambiguità originaria mantiene inalterato il suo impatto nel campo della psicoterapia psicodinamica, termine con il quale si designa quella forma di psicoterapia che si ispira alle teorie psicodinamiche sviluppate dalla psicoanalisi ed ai suoi principi tecnici; essa viene designata di volta in volta anche come psicoterapia analitica, psicoterapia ad orientamento psicoanalitico, psicoterapia espressiva, psicoterapia esplorativa, ecc. Tutti questi termini sottolineano il carattere peculiare e distintivo di questo tipo di psicoterapia rispetto alle altre; il riferimento alla psicoanalisi pone in primo piano l’analisi delle difese e l’emergenza di materiale dinamicamente rimosso nell’inconscio attraverso una relazione terapeutica che utilizza i fenomeni di transfert e l’interpretazione.
La derivazione della psicoterapia dinamica dalla psicoanalisi pone il problema della sua specificità e differenziazione, da una parte rispetto alla psicoanalisi, dall’altra rispetto alle altre forme di psicoterapia.
A. Aspetti comuni delle psicoterapie
Negli ultimi anni è aumentato in misura enorme il numero di terapie che, proponendosi di influenzare e produrre cambiamenti per mezzo di una relazione, si qualificano come psicoterapie; numerosi lavori hanno cercato di evidenziarne l’affinità sostanziale, individuandola nella combinazione variabile di alcuni elementi di base:
- sospensione o modificazione temporanea delle norme che presiedono alla comunicazione ordinaria;
- ciò consente, tra l’altro, di poter esprimere liberamente sentimenti, emozioni, stati d’animo di varia natura ed intensità, realizzando un effetto “catartico”;
- a questo si accompagna il sollievo determinato dall’accettazione benevola, da parte del terapeuta, di condotte vissute spesso in modo colpevole;
- questo clima emotivo non favorisce solo la scarica emotiva, ma consente anche di interpretare il senso dei sintomi della malattia, ricorrendo a vari modelli teorici.
Questi elementi, presenti in misura e combinazione variabili nelle diverse forme di psicoterapia, mirano alla costituzione di una relazione specifica, spesso chiamata “alleanza terapeutica”; essa costituisce la base (il “quadro” di Winnicott) su cui poggia il processo terapeutico.
In questa ottica la differenziazione delle varie forme di psicoterapia tra di loro sarebbe da attribuire ai modelli teorici di riferimento, che modulano il processo terapeutico facendolo sviluppare con tempi e modalità variabili.
B. Il problema dei rapporti tra Psicoterapia psicodinamica e Psicoanalisi
La definizione di una specificità della psicoterapia psicodinamica è più ardua, dal momento che fa riferimento allo stesso corpus teorico e tecnico della psicoanalisi. Il problema è reso ancora più complicato dalla difficoltà di definire ciò che contraddistingue e definisce la psicoanalisi in quanto tale.
1. Unicità/Molteplicità della Psicoanalisi
Tale difficoltà è da attribuire allo sviluppo, iniziato quando Freud era ancora in vita, di una molteplicità di prospettive teoriche, con modificazioni talora sostanziali dell’apparato metapsicologico, che comportavano mutamenti anche significativi della tecnica terapeutica. E’ sorta così ben presto l’esigenza di individuare i parametri in base ai quali definire gli elementi comuni della pratica clinica; a ciò si correla il problema di stabilire fino a che punto essi possano essere ampliati ed estesi ai quadri teorici generali di riferimento. Questi interrogativi sottendono un’altra questione centrale, quella del rapporto tra teoria e tecnica in psicoanalisi; a seconda di come questo si declina si aprono prospettive contrastanti, che sono state oggetto di un dibattito molto vasto di cui ci limitiamo a fornire schematicamente alcuni nodi problematici:
A) Teoria e tecnica sono strettamente connessi: ogni cambiamento della concezione teorica si traduce necessariamente in metodi e tecniche appropriatamente modificati. Da questo punto di vista possono derivare due implicazioni opposte:
1) prospettive teoriche differenti portano a tecniche d’intervento sostanzialmente differenti, che a loro volta producono dati di osservazione differenti; ne deriva che tra le varie correnti psicoanalitiche non vi sarebbero elementi comuni;
2) gli interventi clinici sono comunque espressione di un metodo clinico condiviso e rispecchiano una teoria altrettanto condivisa, che produce dati di osservazione confrontabili; da questo punto di vista le differenze tra le varie scuole riflettono solo differenze di stile e di linguaggio determinate dalle teorie di riferimento.
B) Teoria e tecnica non sono strettamente connesse; i sistemi teorici generali non dipendono dai dati clinici; la tecnica dovrebbe essere costruita in termini indipendenti dalla teoria e portare ad essa e non viceversa; anche questo punto di vista può portare a due implicazioni opposte:
1) tecniche costruite con materiali clinici differenti possono differenziarsi notevolmente tra di loro fino a produrre sistemi teorici incomunicabili;
2) all’opposto si può sostenere una elasticità delle concezioni teoriche, che possono essere ampliate per inglobare nuove idee derivanti dalla pratica clinica; in questo senso la differenza e il pluralismo delle teorie generali non contrasta con una teoria clinica condivisa.
2. Specificità della psicoterapia psicodinamica rispetto alla psicoanalisi
a) Aspetti teorici
La definizione del rapporto reciproco della psicoanalisi e della psicoterapia contiene elementi di ambiguità che rimandano a due posizioni contraddittorie già implicite nell’opera di Freud:
- da una parte egli stabilisce una netta distinzione tra psicoanalisi e suggestione, in base alla quale solo la prima sembrerebbe aspirare al ruolo di psicoterapia vera e propria; questa posizione è stata ripresa, ad esempio, da Glover che includeva tutte le psicoterapie, anche di ispirazione psicoanalitica, nel novero delle tecniche di suggestione;
- su un altro piano si colloca la definizione del 1914: “Ogni orientamento della ricerca che riconosce il transfert e la resistenza e le assuma come punto di partenza per il proprio lavoro ha il diritto di chiamarsi psicoanalisi”; questo punto di vista è stato utilizzato per inserire la psicoanalisi nella cornice più ampia della psicoterapia, entro la quale essa si colloca a fianco di altre tecniche.
Se si afferma l’esistenza di una psicoterapia psicoanalitica a sé stante, che si basa sullo stesso corpus teorico della psicoanalisi, si pongono una serie di problemi:
- In che cosa consistono le somiglianze e le differenze? A questo proposito si tende a identificare le prime nella comprensione condivisa della metapsicologia psicoanalitica e le seconde in una varietà di fattori che rimandano principalmente a questioni di tecnica e di setting;
- Ma ciò pone il problema di valutare l’importanza di queste somiglianze e differenze:
- si può parlare di un continuum lungo la linea comune delle psicoterapie, sia pure differenziate dalla scelta e combinazione di procedure tecniche e principi teorici, a un’estremità della quale si colloca la psicoanalisi?
- oppure esiste una specificità delle differenze che introduce una distinzione radicale, qualitativa?
b) Aspetti tecnici
Il tentativo di definire questa specificità è stato affrontato da Eissler
[1], nel 1953, attraverso la proposizione di un modello ideale di tecnica psicoanalitica di base; ogni modificazione della tecnica, richiesta da varie situazioni contingenti, viene definita un parametro di tecnica, che deve soddisfare 4 requisiti:
a) deve essere introdotto solo quando è provato che la tecnica di base non è sufficiente;
b) non deve mai andare al di là del minimo inevitabile;
c) deve poter condurre alla sua autoeliminazione
d) le sue ripercussioni sul transfert non devono mai essere tali da non poter essere più abolito successivamente dall’interpretazione.
Sulla base di questa formulazione si può definire la psicoterapia psicoanalitica come una terapia basata su parametri non eliminati e introdotti in modo fisso nella tecnica e nel setting.
I parametri sono stati definiti in modo più preciso da Gill
[2] nel 1954 come criteri distintivi della tecnica analitica e distinti in:
A) criteri estrinseci, cioè esteriori o descrittivi della tecnica e in parte sovrapponibili a ciò che si definisce spesso come setting (uso del lettino, numero e frequenza delle sedute, ecc.)
B) criteri intrinseci, che fanno parte integrante della teoria della tecnica e definiscono il processo psicoanalitico vero e proprio:
1) centralità dell’analisi di transfert
2) neutralità tecnica
3) induzione di una nevrosi di transfert regressiva
4) risoluzione della nevrosi di transfert solo o prevalentemente attraverso l’interpretazione.
Secondo questa impostazione la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, di solito ricondotta a variazioni dei criteri estrinseci, viene fondata sui criteri intrinseci.
Resta comunque problematica e tutt’altro che condivisa la natura di questi criteri intrinseci, quanto sia cioè sufficientemente “forte” sul piano epistemologico da giustificare una differenza qualitativa radicale della psicoanalisi.
Su questo piano lo stesso Gill
[3], ad esempio, ha modificato sostanzialmente il suo pensiero nel 1979, relativizzando drasticamente proprio l’importanza dei criteri intrinseci; sulla base di una concezione della situazione analitica “a due persone”, ispirata ad una visione “relativistica e prospettica” della realtà interpersonale, egli ridimensiona drasticamente la centralità del transfert; questo non è più concepito come una distorsione della realtà alla luce del passato, ma come una delle tante possibili formulazioni razionali della realtà, alla quale concorre anche lo psicoanalista, con i suoi stimoli e il suo comportamento. Le interpretazioni di transfert devono dunque sempre partire dal presente, sottolineando come esso sia comprensibile nell’hic et nunc della relazione terapeutica, per arrivare alla consapevolezza che è solo verosimile e, in quanto tale, potrebbe essere determinato anche da fattori interni che rimandano a materiale genetico del passato, che va attentamente analizzato. Ne deriva che anche gli altri criteri intrinseci perdono gran parte della loro rilevanza: la neutralità analitica si scontra con l’impossibilità del terapeuta di restare fuori del campo senza influenzare la produzione transferale del paziente, mentre l’induzione della nevrosi di transfert, che potrebbe essere involontariamente suggestiva da parte dell’analista, non apporta alcun materiale utile ad un lavoro focalizzato sull’attualità della relazione. Il principale fattore terapeutico consiste proprio in questo rapporto, basato su una nuova esperienza mai fatta prima: quella “con l’analista nel momento in cui interpreta”. Questo approccio consente un’estensione significativa anche dei criteri estrinseci in modo da configurare una tecnica analitica che può essere utilizzata in una gran varietà di contesti clinici e istituzionali; si afferma, ad esempio, che la frequenza delle sedute può essere variata a piacere, così come la posizione sul lettino (che potrebbe tra l’altro essere fonte di resistenza non analizzabile), poiché si può sempre interpretarne la ripercussione sul transfert; anche se ciò non può essere effettuato in modo esaustivo non viene compromesso nulla, dal momento che non è necessario che ogni analisi sia completa; vengono così legittimate, tra l’altro, le psicoterapie psicoanalitiche brevi.
In questa prospettiva ciò che differenzia la psicoanalisi dalla psicoterapia è l’analisi sistematica del tran
c) Le indicazioni cliniche
La manipolazione del transfert ci rimanda al tema della suggestione e a quello, strettamente connesso, delle indicazioni terapeutiche della psicoanalisi e della psicoterapia psicodinamica; le modificazioni del setting analitico sono infatti state suggerite prevalentemente dall’estensione delle indicazione cliniche al trattamento analitico e dall’inclusione, ad esempio, di pazienti psicotici o borderline inizialmente ritenuti inidonei per l’impossibilità di sviluppare e analizzare la regressione transferale, che deve essere elaborata e interpretata per produrre un cambiamento significativo; in questi casi il transfert dovrebbe essere “manipolato” per ottenere mutamenti non fondati sull’insight e perciò di natura prevalentemente suggestiva. Non è un caso che il principale impulso allo sviluppo della psicoterapia psicoanalitica sia stato fornito dalla corrente americana definita di Psicologia dell’Io che, a partire dalla seconda topica freudiana del 1922 e dal lavoro di Anna Freud del 1936 sui meccanismi di difesa, ha posto l’accento sull’Io, inteso come istanza dotata di relativa autonomia sia primaria sia secondaria, sulle difese e sull’adattamento. Ciò ha promosso l’esigenza di modificare la tecnica classica per adattarla ai pazienti in funzione della “forza dell’Io”. Gli stessi parametri di Eissler sono stati formulati sulla base della necessità di modificare la tecnica nel caso di condizioni deficitarie dell’Io del paziente, tali da non consentire di tollerare ed elaborare i significati trasmessi dalle interpretazioni; si giustificano così interventi diversi, come le rassicurazioni, i consigli, il ritorno alla posizione vis-à-vis, la prescrizione di un comportamento, ecc. In questa prospettiva l’introduzione di varianti tecniche non altera sostanzialmente la natura del processo psicoanalitico, dal momento che mirano a sostenere temporaneamente l’Io per consentirgli di accedere prima o poi all’insight, che rappresenta comunque l’obiettivo primario della terapia.
La centralità dell’insight per il cambiamento viene invece posta in secondo piano dalla teoria della relazioni oggettuali e dal movimento della psicologia del Sé, sempre a partire dal problema delle indicazioni cliniche. Questi autori, sulla base dell’ipotesi che gran parte della psicopatologia più grave sia da attribuire ad un disturbo delle prime cure materne, sostengono che la funzione primaria del trattamento consiste nel riparare i difetti prodotti da questo fallimento e permettere la ripresa di una crescita evolutiva che si è arrestata; la relazione terapeutica è il vettore primario per conseguire questi obiettivi terapeutici, attraverso fattori relazionali specifici come l’offerta di comprensione e rispecchiamento empatici (Kohut) o la “buona situazione oggettuale” (Fairbairn), che forniscono tutto ciò che l’ambiente traumatizzante ha mancato di provvedere. La schematizzazione un po’ semplicistica di queste formulazioni tecniche mira ad evidenziare come esse possano includere una gran varietà di atteggiamenti e di misure terapeutiche che vanno molto al di là non solo della tecnica analitica classica ma anche delle sue varianti più o meno quantitative prima descritte; in questa ottica risulta molto più sfumata anche la differenziazione tra psicoanalisi e psicoterapia psicodinamica: quest’ultima non si basa più su un aggiustamento tecnico transitorio, ma su un ampliamento della cornice teorica di riferimento, giustificato dal confronto con entità cliniche differenziate, che mantiene tuttavia inalterato il suo valore epistemologico.
Anche dal punto di vista delle indicazioni cliniche siamo dunque rimandati all’ambiguità originaria inerente alla definizione stessa di psicoterapia e alla sua natura terapeutica; su questo piano il riferimento alla psicoanalisi consente di evidenziarne i due poli contraddittori, presenti in alcune recenti formulazioni psicoanalitiche:
- l’obiettivo di “riparare” le conseguenze di danni causati da deprivazioni e traumi precoci, di cui si parlava prima, espressione dello spirito democratico e pragmatico americano, ribadisce la fiducia in un’azione terapeutica “forte”, capace di riparare “difetti”, di costruire “strutture”, di ripristinare la crescita; si può così osservare il paradosso dell’ottimismo terapeutico a volte trionfalistico nei confronti di condizioni cliniche connotate da un’estrema gravità di organizzazione psicologica e di capacità introspettive;
- sul versante opposto si colloca l’obiettivo della costruzione di “narrative“ esistenziali più sane, più utili e migliori dal punto di vista estetico, che implica un obiettivo pragmatico ristretto, rinunciando alla speranza che sia possibile raggiungere la conoscenza di se stessi, del proprio mondo interno attuale e reale di sentimenti, desideri e ricordi e di come questo si articoli con la propria storia “reale”.
Tra questi poli si dipana l’ambiguità immanente nell’obiettivo implicito in ogni progetto psicoterapico mirante al cambiamento attraverso l’insight, che Friedman
[4] sintetizza così: “Non possiamo combinare niente con il paziente fino a che non siamo diventati importanti ai suoi occhi. Ma l’importanza che rivestiamo ai suoi occhi è direttamente collegata al modo in cui riusciamo ad adattarsi alle sue strutture. Noi però non vogliamo essere persone che si adattano, vogliamo essere persone che modificano. E proprio qui sta il problema”.
3. Autonomia della psicoterapia psicodinamica rispetto alla psicoanalisi
Una posizione intermedia può consistere nel riconoscere alla psicoanalisi una posizione vitale, non solo come corpus teorico, ma come terapia specifica che, applicata nella sua forma più ortodossa e inalterata, costituisce uno strumento di ricerca ineguagliabile, sia come via di accesso alle profondità dinamiche e temporali del funzionamento mentale umano, sia come componente centrale del processo di addestramento alla psicoterapia ad orientamento psicodinamico. Questa, sorta principalmente dalla notevole estensione delle indicazioni cliniche, ha portato ad una riflessione critica assai ampia sulla natura dei fattori e dei meccanismi terapeutici, rivelandone la presenza trasversale in un ampio range di dispositivi psicoterapici (inclusa la psicoanalisi stessa); non si tratta allora di occultare la varietà e la differenza di tali fattori - connessi strettamente a modificazioni del setting di rilevanza sostanziale e non solo formale - per rimuovere un sentimento di “inferiorità” e rivendicare una condizione di pari dignità, ma di esplorare fino in fondo tale “diversità” per precisare meglio la definizione e la comprensione dei propri ambiti di pertinenza clinica e teorica. Questo approccio ha prodotto sviluppi particolarmente originali nel campo dell’istituzione psichiatrica, a partire da una vasta gamma di contributi di varia natura miranti a conferirle “qualità psicoterapiche”.
C. Psicoterapia e istituzione psichiatrica
Il ruolo della psicoterapia nell’istituzione psichiatrica pubblica si colloca su due piani distinti ma tra loro correlati:
1) assetto dell’istituzione, della sua organizzazione e delle diverse strutture in cui si articola, in modo da espletare una funzione terapeutica globale, indipendentemente dalle singole tecniche specifiche adottate;
2) adozione di interventi psicoterapici specifici in contesti peculiari e per determinate categorie di pazienti.
Il secondo piano ripropone sostanzialmente i problemi teorici e tecnici descritti in precedenza, mentre il primo offre una gran varietà di stimoli e di sollecitazioni alla riflessione critica, che ha apportato un contributo notevole alla riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica pubblica.
La valorizzazione della funzione terapeutica dell'istituzione psichiatrica rappresenta, infatti, il compimento di un lungo travaglio critico, iniziato poco dopo la prima guerra mondiale, sulla scorta della crescente e diffusa consapevolezza del fallimento delle aspirazioni terapeutiche dell'ospedale psichiatrico, che ha condotto in due direzioni:
- da una parte la denuncia del ruolo anti-terapeutico del manicomio, supportata dal riconoscimento e dalla dichiarazione della sua funzione politica di repressione della devianza sociale, attraverso il suo etichettamento abusivo di "malattia psichica". In questo senso vanno una gran mole di studi sociologici sulla funzione e sul ruolo del manicomio e un vasto movimento "anti-istituzionale", che si è ben presto diffuso dagli Stati Uniti all'Europa;
- dall'altra parte un radicale mutamento di prospettiva nell'approccio all'istituzione psichiatrica, che ha introdotto, accanto alla matrice originaria di natura ideologica e biologico-positivistica, punti di vista diversificati. Questi attingevano ai contributi delle scienze umane e sociali che, a partire dagli anni '30, hanno dato un apporto rilevante allo studio dei fenomeni sociali e collettivi, alla loro struttura e organizzazione e, di conseguenza, alla possibilità di prevederli, controllarli e utilizzarli in modo efficace.
1. Approccio socio-psicologico all’istituzione psichiatrica
Questa seconda prospettiva è scaturita dal riconoscimento della funzione essenziale svolta dai piccoli gruppi nella percezione, da parte dei singoli, dell'ambito sociale e dei suoi valori, sia in quanto fattore di sviluppo personale sia in quanto fonte di costrizione; ciò attribuisce all'istituzione assistenziale una funzione dinamica e relazionale a fianco di quella statica di semplice contenimento, che può avere evidenti implicazioni mutative e terapeutiche. Questi contributi si possono far risalire alla teoria del campo di Kurt Lewin
[5], il quale, nell'ambito della psicologia della Gestalt, fu particolarmente interessato dagli studi sull'elettromagnetismo, che portavano a considerare i campi magnetici come entità strutturali e non come la somma complessiva degli effetti generati dalle singole particelle; egli operò così una trasposizione metodologica del concetto di "campo" dalla fisica alla psicologia, per la quale "ogni fatto dev'essere considerato come qualcosa che si verifica in un campo, e cioè come una parte di un insieme di fatti coesistenti e reciprocamente interdipendenti. Le proprietà di un determinato fatto sono perciò determinate dalle sue relazioni con la struttura alla quale il fatto appartiene, e i cambiamenti che si verificano sono collegati ai cambiamenti intervenuti in altri elementi componenti la struttura in uno spazio e in un tempo determinati". Perciò, il comportamento individuale può essere concepito come funzione dinamica tra la "persona" e il suo "ambiente", iscrivendosi in un campo psicologico costituito dalla totalità dei fatti coesistenti che lo determinano in un dato momento; lo stesso ambiente, a sua volta, è funzione della persona, perché la sua struttura dipende da variabili psicologiche quali i bisogni del soggetto, i suoi scopi, le sue motivazioni, le sue percezioni e i suoi ideali.
L'estensione di questi concetti alle collettività consente un approccio alla dinamica dei gruppi: anche questi vanno concepiti come totalità dinamiche dotate di particolari proprietà distinte da quelle degli elementi che le costituiscono e caratterizzate dall'interdipendenza dei loro membri, da cui scaturiscono le forze che determinano l'evoluzione del gruppo e i suoi movimenti.
Questi contributi rappresentano i primi tentativi di un approccio socio-psicologico all'istituzione, intesa come un tutto funzionante in modo altamente organizzato, nei suoi aspetti sia formali che informali, e analizzata in modo sistematico nella sua interazione con i sintomi del paziente e, di conseguenza, con la sua evoluzione clinica, comprendendo in ciò anche il ruolo del compito terapeutico.
Questo approccio trova la sua formulazione più compiuta e significativa nel celebre studio di Stanton e Schwartz
[6] effettuato sull'esperienza di Chestnut Lodge nei primi anni '50.
Essi postulano l'assunto che l'ospedale differisce dall'ambiente esterno, così da favorire il miglioramento del paziente, non tanto per i trattamenti specifici disponibili al suo interno, quanto per il tipo di contatti che il paziente ha con altre persone, pazienti ed operatori; attribuiscono un'importanza primaria alla comunicazione, analizzandola nella sua derivazione dal processo istituzionale e nella sua relazione con esso; si soffermano sulle modalità che conducono alla comprensione o, viceversa, all'incomprensione, e sottolineano le importanti implicazioni che il "consenso" riveste per il processo terapeutico di pazienti molto disturbati, rafforzando il senso di sicurezza di pazienti che "disperano di raggiungerlo su questioni di importanza personale, di essere cioè realmente compresi"; questo è così prezioso che si tende a mantenerlo anche a spese dell'esercizio delle funzioni critiche. I sintomi psichici vengono visti come l'espressione di un disturbo delle dinamiche interpersonali che presiedono al consenso, spesso parzialmente inconsapevoli, e che devono essere portate alla luce per rimuovere le condotte patologiche. Gli autori analizzano poi l'organizzazione formale della comunicazione nell'istituzione, prevalentemente orale, mostrando come essa sia in generale distorta, principalmente per omissione e selezione, secondo modalità rilevanti per la struttura istituzionale e il ruolo occupato in essa dagli operatori; vengono così costruiti insiemi stabili di opinioni intorno a un paziente da parte di tutta l'équipe, che forniscono una guida automatica e largamente inconscia per interventi significativi sul paziente. Questa "reputazione" è un fattore dinamico significativo nel mantenere stabile un certo stato patologico, ma possiede anche una sua funzionalità, rappresentando una caratteristica del posto del paziente nell'istituzione e il modo in cui l'istituzione si adatta a questi. La "reputazione" e altre incomprensioni sono sempre contraddistinte dall'assenza di informazioni pertinenti, che diviene particolarmente complessa e problematica nel caso delle "comunicazioni confidenziali".
Il blocco della comunicazione formale produce canali informali supplementari, di solito più lenti e meno efficienti di quelli formali, ma ai quali molti membri dello staff tendono a dare un valore maggiore che ai secondi: "i rapporti formali e informali sullo stesso episodio sono entrambi distorti ma, poiché‚ di solito lo sono in modi diversi e per scopi diversi, insieme possono presentare un quadro più completo se l'osservatore è recettivo ad entrambi i rapporti".
Gli autori concludono lo studio analizzando alcuni sintomi particolari mostrati dai pazienti, ad esempio l'incontinenza, cercando di vedere come si inseriscono nel sistema sociale dell'ospedale; essi rilevano, ad esempio, che ogni volta che un paziente mostrava un eccitamento maniacale era sempre oggetto di disaccordo tra due operatori, che erano spesso inconsapevoli del loro disaccordo; da ciò non deriva che l'ambiente possa "causare" un sintomo: "la causa può essere un mosaico composto di diversi elementi e il sintomo richiede per instaurarsi, e forse anche per continuare, il concorso di particolari circostanze e di pazienti con particolari vulnerabilità". L'implicazione sul piano terapeutico è che se le cose stanno così, le circostanze ambientali, in particolare quelle istituzionali, possono essere precisamente identificabili e venire controllate in senso modificativo e terapeutico sulle condotte patologiche dei pazienti.
2. Approccio psicoanalitico all’istituzione psichiatrica
L'approccio psico-sociologico all'istituzione psichiatrica ha assunto in Europa e particolarmente in Francia, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, un'ottica peculiare contraddistinta, da una parte, da una critica socio-politica dell'istituzione manicomiale nella sua funzione repressiva e, dall'altra, dall'impiego del referente psicoanalitico. In questo campo l'esperienza forse più emblematica e significativa è quella di autori come Lebovici, Diatkine e Racamier
[7], a partire dalla convinzione che l'osservazione del malato da solo non è sufficiente, in quanto il suo disturbo mette in evidenza il disturbo dell'intero gruppo ospedaliero, apportando la prova di alcuni fatti di "partecipazione sociopatologica", definiti con il termine di "ospitalismo psichiatrico": incontinenza, stereotipie, agitazione, ecc. Questo contributo si colloca nel contesto del movimento di critica istituzionale, che ha avuto un ruolo rilevante sia negli Stati Uniti che in Europa nel denunciare gli aspetti repressivi e nocivi dell'istituzione manicomiale.
Il contributo più originale di questi autori consiste nell'avere, contemporaneamente, evidenziato il potenziale ruolo terapeutico dell'istituzione psichiatrica, utilizzando il punto di vista psicoanalitico, ma precisando che questo non semplifica i compiti istituzionali, anzi restituisce loro la vera complessità e densità essendo assolutamente inadeguato mescolare strutture nevrotiche e strutture psicotiche e, correlativamente, confondere la presa a carico istituzionale con l'esercizio della psicoterapia. Gli autori ricordano che, in quanto organismo di cure, l'istituzione esercita una funzione basale di presenza, dal momento che "molte manifestazioni e molti sintomi psicotici hanno come funzione principale di ricordarci la loro presenza e di invocare la nostra"; ma si tratta sempre di una presenza aleatoria e problematica, per cui "la presenza curante dovrà rendersi il più possibile assimilabile e poco temibile: stabile, disponibile, morbida e non opprimente"; inoltre, ai malati più angosciati dall'approccio relazionale il contesto collettivo offre un margine di manovra maggiore rispetto alla relazione individuale: essi vi potranno organizzare posizioni mediate, senz'altro difensive, ma in modo strutturante.
L'istituzione svolge, inoltre, importanti funzioni di aiuto all'io psicotico: questo, infatti, in alcuni casi abbandona completamente alcune funzioni essenziali, anche vitali, in altri "delega al suo entourage larghe frazioni del suo io... si potrebbe dire, esagerando, che il suo io sono gli altri". Questo abbandono inconscio del sé da parte dell'io giustifica la ragione profonda e generale della necessità istituzionale: "coloro che hanno bisogno di un organismo di cure sono coloro che non tengono più nelle proprie mani l'insieme dell'attività funzionale del proprio io".
La funzione terapeutica dell'istituzione si articola dunque a vari livelli, in funzione del grado di spezzettamento, di dispersione proiettiva e di spossessione di sé dello psicotico: a un estremo la cura consiste nel sostituirsi alle funzioni disinvestite dell'io, ma cercando sempre di non farlo completamente, bensì di "fungere da sostituti, stimolanti, rappresentanti o garanti; occorre poi trovare il mezzo tecnico per "rappresentare progressivamente la coesione del malato in quanto soggetto senza mutilarlo e senza spossessarlo": "al limite si può trovare che non ci si può rivolgere al paziente se non attraverso il suo entourage significativo". Infine, in una delle tappe più evolute della riorganizzazione psichica del malato e della reinteriorizzazione della sua realtà psichica, la cura consisterà solo nel farsi garante dell'unità del soggetto e del funzionamento del suo io.
Il "motore" principale della relazione terapeutica consiste nell'identificazione, che può riguardare non solo sentimenti o atteggiamenti, ma anche il funzionamento dell'io: "per un malato, il constatare che dei curanti, che si prendono cura di lui, pensano, guardano, coordinano, sopportano la frustrazione, rifiutano la sofferenza inutile, provano collera e se ne servono, si riposano... tutto ciò comincia a contribuire a permettergli di fare o di concepire altrettanto"; essa verte dapprima su una sola persona, poi su due e sempre, e molto più rapidamente di quanto non sembri, investe l'insieme dell'istituzione in quanto essa pure costituisce un organismo: "ciò rende così importanti l'equilibrio dell'insieme dell'équipe, la struttura dell'insieme dell'istituzione e il suo modo di funzionamento effettivo".
Gli autori precisano poi le basi tecniche della terapia istituzionale:
1) occorre strutturare l'istituzione: "l'équipe curante si deve configurare come un insieme, che sia accogliente o, più precisamente, che sappia contenere la personalità dei malati, non nel senso della contenzione fisica, ma nel dare asilo";
2) occorre istituire delle regole, ma che siano esplicite e intelligibili, motivate e fondate su motivi realistici: ogni paziente deve essere in grado di conoscerle, comprenderle e anche modificarle;
3) occorre preservare la relativa opacità del reale, nel senso che l'istituzione non va considerata una pura e semplice riserva simbolica, ma occorre comprendere il meglio possibile ciò che avviene nella vasta rete delle relazioni istituzionali;
4) rispettare le tappe evolutive, cioè collocarsi nelle cure al livello dell'io del paziente, il che esige che si sappia apprezzare il funzionamento dell'io non tanto nei suoi aspetti propriamente difensivi, quanto nelle altre capacità funzionali, in ciò differenziandosi profondamente dalla pratica della psichiatria dei sintomi; il compito principale della cura istituzionale consiste nel tollerare le tappe evolutive, permettere loro di organizzarsi nel concreto quotidiano, riconoscerne l'aspetto positivo, prima di spingere più attivamente il paziente verso una nuova tappa;
5) sapersi assumere certi rischi, ma solo quando l'équipe può assumerlo senza sofferenza, se ha provato che sa rifiutare il rischio folle, se il rischio scelto è conosciuto, calcolato, se è condiviso dai familiari del malato, infine e soprattutto se l'assunzione di questo rischio presenta senza alcun dubbio, per il malato, una virtù rassicurante;
6) utilizzare i processi spontanei, ad esempio i movimenti affettivi dei medici, degli infermieri e dei malati verso i malati stessi, che non hanno sempre una funzione difensiva e distanziante ma, rappresentando reazioni indotte dalle posizioni inconsce dei pazienti e, in modo più generale, tutto ciò che gli psicotici non assumono più come loro compito, possono fornire un utile apporto al completamento della loro personalità.
In base a questi principi generali, la tecnica della cura istituzionale deve essere:
- intensiva: nel senso di abbracciare l'individualità del paziente e non solo le sue perturbazioni manifeste;
- estensiva: nel senso che abbraccia l'entourage del malato nei rapporti che si stabiliscono dall'uno all'altro e non il malato isolatamente;
- collettiva: nel senso che è il prodotto di un'équipe e non di un medico isolato.
L'esperienza istituzionale italiana è stata caratterizzata, a partire dagli anni '60, dal forte risalto assunto dal movimento anti-istituzionale che, con la denominazione di Psichiatria Democratica, ha condotto una serrata critica ideologico-politica del ruolo repressivo svolto dall'ospedale psichiatrico in una realtà socio-culturale e assistenziale assai degradata rispetto ad altri contesti occidentali. Questo movimento ha svolto un'importante funzione di "traino": ha sollecitato un'estesa serie di iniziative di modificazione del nostro panorama istituzionale, sollevando una vasta eco, che si è diffusa anche oltre confine, e contribuendo a identificare l'apporto del nostro paese al rinnovamento psichiatrico con la "negazione" dell'istituzione.
In realtà, e nello stesso periodo, sono state condotte anche in Italia significative esperienze di rinnovamento assistenziale che si sono ispirate sia alla prospettiva psico-sociale di matrice anglosassone, sia ai contributi della psicoanalisi, tentando un approccio critico all'istituzione che ne recuperasse anche le potenzialità terapeutiche. Tra queste iniziative assume un rilievo particolare quella condotta da De Martis, Petrella e dal loro gruppo di lavoro
[8], soprattutto per l'impegno costante e prolungato nel tempo nell'attività psichiatrica pubblica. Questo impegno è stato contrassegnato da un continuo confronto con il referente psicoanalitico, condotto secondo una prospettiva critica che presenta molte analogie con l'esperienza francese di cui si parlava prima:
- il suo utilizzo, innanzitutto, per rivitalizzare in senso relazionale un apparato nosografico sclerotizzato;
- l'analisi critica dei processi di "socio-patogenesi" istituzionale nella pratica manicomiale;
- la rivalutazione del ruolo istituzionale attraverso un suo legame con la realtà territoriale.
3. Il “setting” istituzionale
Queste esperienze istituzionali “storiche” hanno posto le fondamenta di un approccio psicodinamico all’istituzione psichiatrica che, dall’ospedale psichiatrico in cui si è inizialmente sviluppato, si è successivamente esteso ai nuovi contesti previsti dalla riforma assistenziale agli inizi degli anni ‘80. In questo processo ha assunto un ruolo centrale la riflessione sul setting, inteso come insieme di elementi esteriori costanti, a cui paziente e analista si devono attenere (attraverso la stipulazione del contratto) e all'interno dei quali si dànno il processo e la relazione analitica: le situazioni clinico-relazionali richiedono un setting definito e quello dell’istituzione psichiatrica è specifico e peculiare.
Su questa tema un grande contributo è stato apportato dagli sviluppi teorici che, iniziati con Melanie Klein, hanno spostato l'accento dalla centralità edipica alle dinamiche più precoci del funzionamento mentale, comportando sia una revisione dei precedenti criteri di analizzabilità, che prevedevano una sufficiente integrità dell'Io del paziente, sia un allargamento dell'attenzione sul setting ed il suo significato con pazienti particolarmente regrediti o il cui stadio di sviluppo non ha raggiunto livelli di sufficiente integrazione. L'estensione del campo di riflessione è giunto sino alla considerazione del setting istituzionale all'interno del quale vengono curati questi pazienti.
La riflessione teorica sul setting prende inizio in Winnicott
[9] dall'osservazione del diverso atteggiamento di pazienti nevrotici e psicotici in analisi. Egli afferma che "Quando vi è un Io intatto...il setting è secondario rispetto al lavoro interpretativo, mentre qualora venissero in primo piano i livelli più primitivi della mente, che, nelle fasi di sviluppo infantile non solo precedono la formazione di un Io autonomo, ma preludono alla definizione del Sé e richiedono costanti ed adeguate cure materne, allora il setting diventa più importante dell'interpretazione, perché riproduce le prime, primissime tecniche delle cure materne. Invita alla regressione grazie alla sua stabilità e sicurezza...Il paziente ed il setting si fondono nella felice situazione originaria del narcisismo primario". Anche l'atteggiamento dell'analista viene incluso da Winnicott nel setting, dunque analista-madre-ambiente e setting come fattori d'importanza "..vitale nell'analisi di uno psicotico, a volte, effettivamente più importanti delle interpretazioni verbali che pure devono essere date. Per il nevrotico il divano, il calore ed il benessere possono simbolizzare l'amore materno; per lo psicotico sarebbe più esatto dire che queste cose sono l'espressione fisica dell'amore dell'analista".
Il setting psicoanalitico con pazienti gravi non ha più il significato di sfondo, ma figura, tanto è vero che Winnicott parla di situazione analitica, sottolineando in tal modo l'aspetto direttamente terapeutico: "Se il comportamento dell'analista è sufficientemente buono per quel che riguarda l'adattamento al bisogno, viene gradualmente percepito dal paziente come qualcosa che fa sperare che il vero Sé riesca finalmente a correre i rischi che l'inizio di un'esperienza di vita comporta".
Bleger
[10] individua una stretta affinità fra le strutture che costituiscono il setting e quelle istituzionali, fino a considerare il setting come il deposito istituzionale del processo analitico; ciò discende dal fatto che l'istituzione, così come il setting, si può definire come una relazione, o un insieme di relazioni, che si protrae per lungo tempo e che è regolata da una serie di norme condivise; ne consegue una particolare esperienza di continuità tra sé e l'oggetto presente, che si fonda principalmente sulla "sensorialità", indipendentemente dalle singole vicende che intercorrono tra i membri del rapporto. Questo livello dell'esperienza è muto, non consapevole e non avvertibile; l'individuo può solo avvertire sensazioni fisiche di benessere o di malessere, espansione o contrazione, rigidezza o elasticità, rivelando un livello simbiotico-fusionale; questo si manifesta principalmente in momenti di rottura, lutto e frantumazione del contesto, determinando una falla nella organizzazione del sé corporeo, una modifica della percezione del funzionamento della propria sensorialità. L'istituzione diventa così, in modo muto e non avvertibile, il deposito di una serie di esperienze sensoriali corporee che sono vissute come condivise e non più individuali, differente dal piano delle identificazioni proiettive; esse costituiscono il cosiddetto "io sincretico", cioè l'io diffuso e sedimentato nel setting come un aspetto amplificato e corporeizzato dell'intera personalità. Questa esperienza soggettiva di una condivisione con il gruppo istituzionale di alcuni aspetti molto fisici di sé si impregna di particolari fantasie, che le conferiscono un valore particolare e prezioso, fino ad essere idealizzato sia pure in modo muto e non consapevole. Tutto ciò ci consente di comprendere la profonda intensità emotiva dei fenomeni istituzionali: la drammaticità delle rotture, il valore strutturante delle abitudini, dei riti, dei contratti ripetuti, l'effetto devastante della rottura della continuità, ma anche le reazioni scomposte al nuovo e la tendenza al conservatorismo e alla ripetizione. L'introduzione di cambiamenti o modifiche nell'assetto istituzionale deve perciò tener conto dell'esistenza di questo piano e dell'attrito che può derivare dall'impatto con il cambiamento proposto.
Il contributo di Bion
[11] all'istituzione inizia con il riconoscimento, nella vita dei gruppi, di una dicotomia inconciliabile tra due stati mentali:
- il gruppo di lavoro, permeato di razionalità, può stare a contatto con la realtà e tollerare le difficoltà e il dolore, per cui è capace di sviluppo e di crescita;
- il gruppo dominato dagli assunti di base è fondato sull'attivazione automatica e violenta di emozioni intense e incontrollate, biologicamente determinate, connesse con la dipendenza, l'ostilità e l'accoppiamento.
La successiva introduzione del concetto di "gruppo di lavoro specializzato", come l'esercito o la chiesa, che consente una gestione organizzata dell'emozione connessa ad un assunto di base, conduce al concetto più evoluto e complesso di istituzione: questa nasce come un gruppo di lavoro organizzato che ha lo scopo di sviluppare e diffondere un particolare complesso di idee e rappresentazioni investite di grande valore; questo può, a sua volta, suscitare intense emozioni strutturanti, capaci di indurre un potente coinvolgimento affettivo; l'istituzione finisce così per svolgere l'importante funzione di conservare e perpetuare un patrimonio impregnato profondamente di valenze emotive. In questa prospettiva è implicito il rischio di un processo di istituzionalizzazione: processo per cui un gruppo si irrigidisce in un mantenimento fisso e burocratizzato del proprio patrimonio storico, privando il nucleo fondante originario, apportato da un personaggio innovativo e creativo, del suo valore fecondativo e della sua capacità di vitalizzazione e rinnovamento. Ne deriva che ogni istituzione rimanda a un nucleo emotivo-rappresentativo fondante, che ne costituisce la sorgente originaria di vitalità emotiva e permea di sé il gruppo e la soggettività in esso circolante; ogni cambiamento implica, di conseguenza, una modifica di un certo assetto emozionale di base e delle valenze salvifiche o messianiche ad esso connesse.
L'approccio socio-analitico all'istituzione, sviluppato in particolare da Elliott Jacques e da Isabel Menzies-Lyth
[12], non si limita a considerarla come un sistema di posizioni e di ruoli gerarchici, ma ne sottolinea il carattere di apparato organizzatore degli affetti di base dei suoi membri. Essa ha, nel suo complesso, l'importante funzione di proteggere il singolo individuo da angosce depressive e persecutorie secondo due modalità principali:
- da una parte l'istituzione si configura come un sistema articolato e coerente di ruoli gerarchici sostanzialmente rigido e immodificabile, conferendo ai componenti un'identità "neutra" che deriva dalla posizione occupata e una griglia mentale di valutazione della realtà, una specie di "mente collettiva" che può svolgere una funzione vicariante di alcune funzioni mentali individuali: si evitano così le angosce derivanti da una partecipazione più "personale" e diretta;
- dall'altra parte l'istituzione offre un sistema di valori, di comportamenti codificati, di regole condivise e rinforzate dall'uso prolungato nel tempo, fungendo da deposito di proiezioni e di identificazioni.
Questi meccanismi, che svolgono sempre una funzione difensiva benefica, tendono tuttavia ad ipertrofizzarsi, determinando un malfunzionamento legato sostanzialmente all'eccesso delle operazioni di identificazione proiettiva in atto.
Queste formulazioni sono state sviluppate da Fornari
[13] nella concezione dei "fantasmi collettivi condivisi", specie di fantasmi basici originari intorno ai quali si struttura ogni istituzione; essi sono carichi di valenze affettive, che rimandano alle figure del sistema familiare e, secondo la loro prevalenza nel singolo gruppo, ne orientano il linguaggio, il sistema di valori, le forme e le norme di comportamento dei membri: vi saranno quindi istituzioni primariamente fondate sull'imago paterna, altre su quella materna, sempre comunque in connessione con la fantasmatica della parentela. Le identificazioni proiettive, che si animano nelle istituzioni, non si indirizzano quindi su un ruolo o un sistema di ruoli, ma sul fantasma di base condiviso; ne consegue che la possibilità di indurre un mutamento nell'istituzione dipende dall'individuazione del fantasma e dalla limitazione del potere eccessivo che può aver assunto in un momento specifico della sua evoluzione.
[1] Eissler K.R.: Effetto della struttura dell’Io sulla tecnica psicoanalitica. Psicoterapia e Scienze Umane, 2:50-79, 1981.
[2] Gill M.M.: Psychoanalysis and exploratory psychotherapy. Journal of the American Psychoanalytic Association, 2:771-797, 1954.
[3] Gill M.M.: Teoria e tecnica dell’analisi del transfert. Astrolabio, Roma, 1985.
[4] Friedman L.: Anatomia della psicoterapia. Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
[5] Lewin K.:Principi di psicologia topologica. Editrice Universitaria, Firenze, 1965.
[6] Stanton A.H., Schwartz M.S.: The Mental Hospital. Basic Books, New York, 1954.
[7] Racamier P.-C.: Lo psicoanalista senza divano. Raffaello Cortina, Milano, 1982.
[8] De Martis D., Bezoari M.(a cura di): Istituzione, famiglia, équipe curante. Feltrinelli, Milano, 1978 - De Martis D., Petrella F., Caverzasi E. (a cura di): Il Paese degli Specchi. Confronto con lungodegenti manicomiali, Feltrinelli, Milano, 1980 - De Martis D., Petrella F., Ambrosi P. (a cura di): Fare e pensare in psichiatria. Relazione e istituzione. Raffaello Cortina, Milano, 1987.
[9] Winnicott D.W.: Le forme cliniche del transfert, Tr. it. in: Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975, pp 351-356.
[10] Bleger J.: Psicoanalisi del setting psicoanalitico, Tr. it. in: Setting e processo psicoanalitico (a cura di Genovese C.), Cortina, Milano, 1988, pp 243-256.
[11] Bion W.R.: Attenzione e interpretazione. Armando, Roma, 1973.
[12] Jaques E: Sistemi sociali come difesa contro l'ansia persecutoria e depressiva. Contributo allo studio psicoanalitico dei processi sociali, Tr. it. in: Nuove vie della psicoanalisi (a cura di Klein M., e coll.), Il Saggiatore, Milano, 1966, pp 609-633.
[13] Fornari F.: Per una psicoanalisi delle istituzioni. In: L'istituzione e le istituzioni. Studi psicoanalitici (a cura di Kaes e al.), Borla, Roma, 1991, pp. 116-154.
Estratto da: AMBROSI P., BARALE F., UCELLI S.:
Psicoanalisi, psicoterapia psicodinamica, psicoterapie analitiche brevi, psicoterapia supportiva,. In:
Professione Medico. Volume 8, UTET, Torino, 1999, pp. 609-631.